Antonio De Lisa- Il corpo infranto (Poesie)

IL SOFFIO DELLA VITA

Inutile chiedersi cosa sia, in
fondo, la medicina. La medicina d’og-
gi. Mio padre con i suoi metodi anti-
quati ti auscultava con lo stetoscopio,
tamburellava un dito sull’altro
per controllare la risonanza
degli organi interni, appoggiava
l’orecchio alla schiena e al cuore
per ascoltare il soffio della vita;
un modo accogliente per l’entrata
in un mondo terribilmente sacro:
il corpo, la malattia, la guarigione.
Questi medici che sto conoscendo
si limitano a toccarti con una
specie di mouse pieno di gel
per mandare segnali a una macchina.
Quei gesti parlavano la lingua che
il corpo si attende, nel suo urlo
di dolore e di speranza, esorcizzando
la paura del paziente di non uscirne più.
Questi, della piena efficienza del guarire.
Ma quelli bravi si riconoscono subito,
ieri come oggi, per i quali le macchine
sono solo strumenti. Esculapio non è morto.
Non si è spento il soffio della vita.

LE GIOVANI PARCHE

Il gioco crudele delle giovani Parche
sembra indistinguibile dal caso:
tirano a sorte per decidere
chi deve vivere o morire?
O seguono un imprescruta-
bile disegno chiamato “destino”?
Non mi può rispondere colui
a cui hanno appena applicato due by-pass.
E’ stato colto da un infarto su un’auto-
strada di grande traffico,
mentre guidava un camion.
Peggio di così non gli poteva an-
dare, ma si è salvato.
E’ più giovane di me, ma fa una vita
dura, massacrante. Sono contento
che le giovani Parche gli abbiano
regalato un benevolo sorriso.

DIAGNOSI

La diagnosi esatta, che una volta
era un vanto anche per sempli-
ci medici condotti,
come lo era mio padre,

ora sembra basarsi su una nu-
vola di probabilità quantica:
si è rotto un muscolo, ma ti
si spalanca davanti il cimitero.

Anche il mugugno refertoria-
le scribacchiato su un pezzetto
di carta intestata annuncia di-
sastri di cui ignori il significato.

Sembra alludere a un’angina,
parola terribile a sentirla pro-
nunciare, come l’inizio di periglio-
se avventure e odissee ospedaliere.

E’ qualcosa che ha a che fare
con arterie  profonde,
un tumulto cardio-vascolare,
qualcosa che si ottura,

con un’incombente minaccia per
l’organismo e conseguenze nefaste.
Ma non ci sono i sintomi: il sudore,
il vomito; il dolore sì, però.

Mi produco in una spericolata
semeiotica dell’infarto e
delle sue evidenze, ma si sa che
in medicina non c’è mai la parola fine.

VIAGGIATORI

Dopo una vita di lavoro
finiscono in un reparto d’ospedale.
Non dico di me, in fondo
mi sono divertito.
Parlo di gente che ha cominciato
a lavorare quando io andavo a ballare.
Ci siamo dati appuntamento
in questo particolare momento.
Mi trovo bene con i camionisti
con cui condivido le luci notturne,
la razione di pillole
e il cicaleccio con le infermiere.
In fondo siamo tutti viaggiatori.
Il bagno in perfetto ordine
sembra la toilette
di un Autogrill autostradale.

SANGUE ILLUMINATO

Una triplice convulsione
mi conduce dalla sala d’attesa
nelle volute di un mondo do-
ve le dimensioni del corpo

sono materiate di soli nomi
e di circostanze aggravanti:
coaguli, enzimi positivi,
blocco di Branca, infezioni.

Sono introdotto all’eco-doppler vasco-
lare, una vera macchina parlante, un
congegno super sofisticato che ti
esplora il sistema sanguigno a colori

con lucine rosse e blu che si accen-
dono quando il bravo medico ti preme
vene e arterie. Comincio a preoccuparmi
quando non si accende qualche luce.

Nelle mie astrazioni intellettuali
il sangue entra come una metafora.
In questo caso, invece, le tracce
diventano scie di sangue illuminato.

Ma lo specialista mi assicura
che va tutto bene, c’è solo
qualche arteria bloccata, ma pic-
cola. Solo una feritina piccolina.

Nessun segno di danni maggiori.
Alzo gli occhi al cielo,
anche se sono steso in mutande
sul lettino. Non devo sembrare

un granché. Qui non ci sono meta-
fore. Il monitor descrive i percorsi
del sangue ed è anche amplificato:
diastole e sistole come sfiati di balene.

In fondo, è solo sangue,
e non lo devo neanche vedere dal vi-
vo, ne seguo solo le giravolte
ma perché mi viene da vomitare?

Gli occhi che avevo alzato al cielo
si abbassano nel reparto intensivo
su petti traforati di persone
con molte arterie bloccate e cieche.

Il cuore è la prima vittima del ritmo
forsennato con cui conduciamo la vi-
ta. Non si ha mai tempo per niente,
non c’è mai sosta, è tutto uno scappar via.

CENERE

Il caffé è spasmogeno
e le sigarette tossiche.
Va bene, concedo.
Ma per chi si reggeva
su questi due pilastri
è come pretendere
di muovere la macchina
senza ruote.
Quella che resta è una carcassa
che si aggira come un fantasma
nicotinico dipendente in astinenza
caffeina dipendente arenato.
Una cosa alla volta:
non dovevate vietarmi
in un colpo solo
sigarette e caffé.
M’avete ridato la vita,
ma tolta la voglia.

PRIMI PASSI

A comprare i giornali
ci vado da solo e presto,
cammino come uno zombie,
auscultandomi dall’interno.
I primi passi sull’asfalto
raccontano la fragilità
e insieme la resistenza
del corpo umano: aperto
a imprevedibili insulti
ma anche capace di reagire.
Però, bisogna sempre rico-
minciare?
Dalla vita activa sprofondare
nell’inerzia, a periodi obbli-
gati?
Quale dio
hai offeso con le tue azioni?
O forse ci sono solo ripartenze
nella vita? Si comincia o ricomincia
e non si arriva mai?

O DI QUA O DI LA’

C’è un certo punto in cui decidi:
o di qua o di là,
o ti converti definitivamente
o fai il salto nel nulla.
Lo si vede in corsia, nei reparti
a rischio, quando un diacono
porta l’ostia della comunione.
Forse è l’ultima scelta,
il rientro sulla grande via
della consolazione.
Chi non ha niente da decidere,
perché è stato sempre di là,
una fitta la sente comunque un po’,
si sente ancora una volta estraneo.
Ma è solo un fugace palpito di pensiero,
immagina cosa gli direbbe
il suo amico musulmano.

VETRO RIGATO

Com’è la gente che incontri
nelle tue prime passeggiate
da convalescente un po’ imbranato?
Ti guarda strano e ha un tono
di voce più alto,
sembra che si muova a scatti
e che ti debba urtare
da un momento all’altro.
Nella pioggia di primavera
tutto sembra fluire come
da dietro un vetro rigato.

LE LUCI DELLA SERA

E le parlo piano. A lei piace
raccontarmi i suoi sintomi,
minuziosamente, da esperta.
E sprofondare in se stessa.

Quando esagera con le dosi dice
che non riesce più a sognare,
vede soltanto un grande tunnel ne-
ro, interminabilmente buio e profondo.

Le luci della sera ora entrano nella stan-
za, quiete e defilate ma troppo lontane.
Sono luci che non illuminano,
come parole che non dicono.



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