Che cos’ha di speciale la nostra epoca tanto da sembrare a molti priva di interesse artistico? Proviamo a fare una riflessione articolata. E’ perlomeno doveroso chiarire alcuni presupposti, prima di dispiegare in pieno il ventaglio delle proposte.
Il primo dato che salta agli occhi è di tipo analitico. E’ un’epoca di molteplicità e di varietà assolute. Sembra che ogni artista (nel senso più ampio) faccia storia a sé. Anzi, che ogni singola opera faccia storia a sé. Non sono riconoscibili scuole, se non piccole cordate; non sono visibili opzioni di poetica, perché spesso lo stesso artista articola il proprio percorso in più direzioni. Lo stesso trattamento della materia prima dell’arte, cioè il suo proprio linguaggio, è ampiamente prospettico, dallo sperimentalismo al pacato e a volte dolente intimismo.
Da un punto di vista storico, il periodo che va dalla metà degli anni Settanta ad oggi è il meno definibile possibile da questo punto di vista. E’ l’immagine stessa della frammentarietà. E lo si afferma in questa sede come puro dato di fatto, senza implicazioni.
E’ anche un’epoca di grande abbondanza artistica. Come se l’arte fosse l’ultima isola di testimonianza prima del silenzio. Le due cose forse vanno insieme. Abbondanza e frammentarietà non sono scindibili.
Ma fatta questa premessa, su cui si dovrà tornare per chiarirne gli elementi interni ed esplicitarne le connessioni, bisogna passare all’altro punto, ovvero: di cosa è specchio questa frammentarietà? E’ una domanda che presuppone un inevitabile rispecchiamento tra condizione della società e stato dell’arte.
Frammentarietà e proliferazione sono in questa prospettiva l’epifenomeno, per così dire, di una condizione di fondo di uno stato di cose che ormai è andato oltre anche il post-moderno, superandolo in prospettive ancora più caotiche e confuse. E’ questa la condizione che chiamiamo di “precarietà ontologica”. Non c’è più niente che tenga come punto fermo, come punto di riferimento. Non ci riferiamo certo ai vecchi valori (ideologici), ci riferiamo ai valori in generale. Resta solo l’”io”. Cioè una situazione in cui solo l’individualismo più isolazionista detta le leggi del movimento. Ma proprio perché isolato, tanto più conformista. Una miscela particolare che si è venuta a creare in condizioni di mescidazione tra vecchi spezzoni di realtà e nuove aspirazioni.
La domanda da porsi si configura quindi in maniera più sottilmente articolata. Come si muove l’arte in questo stato di cose, in cui tutto fluttua in una condizione di precarietà generale (anche lavorativa, anche di condizione sociale)? Forse, tutto sommato, conserva una sua dignità. Zanzotto ha detto – dal punto di vista poetico- che chi scrive versi fa ipso facto resistenza civile. E’ sempre generoso, quello che è stato forse l’ultimo grande poeta italiano. Questa generosità è di tutta l’arte contemporanea, al di là di polemiche e dibattiti, ma tutte e due inconcludenti perché non fanno i conti col “mercato”.
Sembra appunto il “mercato” a dettare le regole. Lo può fare perché l’artista si è chiuso in un suo spazio di autorealizzazione senza più guardare fuori: alla strada, alla realtà, alla società (più in generale), all cultura popolare. Quando parliamo di cultura popolare il riferimento è alla cultura pop. Solo in quel contesto sono emersi bagliori di novità e di potenza espressiva che le arti “colte” non hanno saputo recepire, tranne che in alcune forme di romanzo contemporaneo, come quello di Thomas Pynchon, Edgar Foster Wallace e Roberto Bolano.
Il XXI secolo ha cominciato a emettere segnali di crisi sociale e politica fi dai suoi esordi. Ma nessuno ha saputo tradurre questi segnali in termini estetici. Non c’è da meravigliarsi se l’arte si sia trovata isolata nel flusso dei messaggi sociali, chiusa in un suo torvo egoismo. Se riuscirà a cogliere questi segnali, è probabile che possa reimmetersi nel circuito vitale della comunicazione. Questo significa dichiararsi immediatamente politica, nel senso ampio della partecipazione alla polis; che non esclude certo la navigazione nelle plaghe profonde dell’io ma la rende simbolicamente evidente, partecipata, “sociale”. Il linguaggio dell’arte, delle arti, non teme la contaminazione. E’ esso stesso generatore di conflitto, con i propri mezzi. Se si incontrano questi conflitti scoccherà una nuova scintilla. L’alternativa è il silenzio.
Antonio De Lisa
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Bellissimo questo articolo, ho apprezzato molto il ritratto che ne hai fatto della frammentata modernità. Sarà anche che una moltitudine di canali espressivi come quella in cui siamo immersi ha fatto perdere di spessore le cose? Fino a qualche decennio fa un libro era un libro e per leggere il suo contenuto bisognava leggerlo con attenzione pagina dopo pagina. Ora un libro si riduce a qualche frase d’effetto per solleticare l’epidermide della molteplicità basata sul superficiale e basta scorrere tra qualche sito internet, tra qualche social per potersi illudere di leggere l’essenza di un romanzo. È stato dato uno strumento o l’illusione di uno strumento potentissimo a coloro che non sanno nemmeno cos’è il loro “io”?
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