Le “tre vie” della mia pittura: figurativo-critica, astratta e polimaterica
The three ways of my painting: figurative, abstract, polymateric
Ecco, come fosse ieri: mio padre dà a me e a mio fratello l’incarico disegnare con i pastelli a olio il panorama che si vedeva dalla nostra finestra. Odiavo i pastelli, li consideravo roba da scolaretti, anche se facevo solo la seconda media. Mi figuravo le meraviglie dei colori da adulti, accettavo quei surrogati con disgusto. Vedo il profilo di una montagna, una vallata, il cielo, la città. Come si disegna il mondo? Andavo bene in disegno a scuola, ma facevo soprattutto sculture col Das. Mi piaceva manipolare la materia, diciamo pure: pasticciare con la materia, una cosa che non mi ha mai abbandonato. Chissà perché. Che ho a che fare io con la chimica?
I pastelli a olio cominciano a sgretolarsi nelle mie mani, sbriciolandosi sul foglio (quando uno non ha voglia di fare una cosa, non c’è verso!). allora comincio a giocare col foglio, piegandolo in varie direzioni. So che manca un centesimo di secondo a far volare quel foglio nella spazzatura, ma un dio benevolo mi fornisce l’ispirazione: toccare col pollice quelle briciole. La rivelazione! Quel pigmento lascia sul foglio una scia di colore cangiante (evidentemente raccoglieva briciole di diverso colore). L’effetto è stupefacente. Passo in un attimo da svogliato esecutore di un ritrattino di maniera ad artista, anche se non so bene in che cosa consista, ma l’ho letto su un libro: l’artista inventa con i colori …
Dov’ero? Ah, sì, ai pastelli. E’ necessario dirvi che dal momento della scoperta di quello che potevano fare i pastelli a olio strisciati col pollice sulla carta è stato tutto uno scarabocchiare e appiccicare i fogli imbrattati per tutta la casa, sollevando il disappunto non proprio tacito di mia madre, che non capiva che bisogno avevo di usare un doppio strato di scotch per attaccarli al muro, scrostando l’intonaco. Dovevo “vedere” quei fogli, da lontano, con diverse luci, di giorno e di notte. Il colore aveva un effetto incantatorio. In quei giorni portai qualche foglio alla prof di disegno, che non diede mostra di apprezzarlo, sperimentando così per la prima volta l’ingiustizia della critica. La prof non apprezzava la pittura astratta. I Giganti cantavano “Proposta- Mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Era il 1967, e io a mia volta non capivo perché bisognava mettere fiori nei cannoni.
Me ne sono ricordato, anni dopo, nell’ambito della mia produzione “astratta”.
Da rivoluzionario in erba, mentre i miei compagni di classe dipingevano mazzetti di fiori e brutti paesaggi, io mi davo alla pittura di pastello astratto, facendo precipitare la considerazione che la prof aveva per me. Così strinsi una santa alleanza col prof di Educazione tecnica, proponendo al poveretto di costruire un periscopio. Mi affascinava la dimensione doppia e anfibia di quell’aggeggio. Il problema era che non avevo nessuna nozione di ottica geometrica, non sapevo nemmeno che esistesse una simile materia. Scoprii che anche il prof non aveva nessuna nozione di ottica geometrica. Ci guardavamo delusi e incerti, osservando quel “coso” di legno. Così spostai la mia attenzione sui miei compagni di gioco, che avrebbero apprezzato più una sana partita di pallone che una seduta di falegnameria. Ero attratto dalle cose impossibili e non tutte posso menzionarle in questa sede. Riuscii a convincere i miei amici con la promessa che avrei portato la mia radiolina al catechismo per far sentire al parroco la canzone di Guccini “Dio è morto”. Il povero sacerdote pensava che fosse una canzone blasfema.
Da qui nasce il gusto per il polimaterico, che mi porterà anni dopo ad elaborare tutta una serie di quadri a metà tra la pittura e la scultura. La serie comincia proprio con un riferimento a Elea/Velia.

La serie poi sfocerà in una mostra del 2020, “Plastica Ouverture”. “Plastica Ouverture” raccoglie i quadri più legati alla tematica polimaterica, da cui il titolo plastica, con un ovvio riferimento alla scultura. Si tratta di opere create in un decennio, che si basano molto sulla tecnica dell’assemblage.

I colori del mare
Poi, c’erano le lunghe estati cilentane. C’è una cosa che facevo da ragazzo e faccio ancora oggi: passeggiare nel mare. Entro per circa quattro-cinque metri e passeggio per centinaia di metri in parallelo alla battigia. Osservo il colore del mare. Ma il mare che colore ha? Il mare è metamorfosi. Una continua, cangiante metamorfosi. Una metamorfosi simbiotica col cielo. Entrambi dipendenti dalla potente luce del sole. Ma visto da dentro, il mare è soprattutto sensazione di forza. Esprime una sensazione tattile, più che visiva. La forza che spinge sui muscoli.
Quando ci stai dentro il mare è una massa di colore. Nel tardo pomeriggio assume una consistenza muschiosa. Sembra verde smeraldo, soprattutto quando si piega a creare le onde, su acque basse. Quel verde è solidale al colore terra di siena chiara della sabbia sottostante. Di mattina, prima del sorgere del sole, il mare è vitreo, freddo, di un azzurro lontano. Quando si prepara al tramonto è caldo, materno, confidenziale. Anhe le onde sono inoffensive, ti scondinzolano intorno come cagnolini festosi. La natura si compiace di se stessa, accogliendoti nel suo grembo.

Passeggiando nel mare si ha la visione netta di due universi: da un lato l’immensità, dall’altro la spiaggia affollata di gente. Hai la visione di quello che è e di quello he potrebbe essere. La natura infinita e immutabile dell’essere; la mutevole esperienza umana, il regno della contingenza. Sulla spiaggia l’umanità appare meno ringhiosa che nel traffico urbano, dove una precedenza mancata o un sorpasso fanno salire il livello della bile. La calma sembra regnare, anche quando la gente si scatena in danze da spiaggia, fregandosene della cellulite.
Quando guardo un quadro di Raffaello non vedo l’immagine centrale, di una perfezione divina, no, vedo il paesaggio che le sta dietro. Quel paesaggio racconta la quieta bellezza del paesaggio umbro e toscano. questi per me sono i colori di quella cultura che è stata definita Rinascimento. Quando passeggio “nel” mare questo per me è una specie di passeggiata in quella cultura che alcuni definiscono “mediterranea”. Mediterraneo è un sapore, un gusto di vita, un modo di assaporarne gli umori, una tavolozza di colori, un soffio di benessere che non si può dimenticare.

Passano gli anni ma non i riti. Sono appena tornato dal mare. Ho addosso un sale luccicante di sole e sto tardando a farmi la doccia per gustarne ancora il sapore. Mi accingo alla seduta serotina di sax, in cui propongo al mare sottostante il mio modesto contributo sinestetico, come sintesi di suono e colore. Le vibrazioni provocate dal sax si trasmettono in quella zona della percezione in cui si mescolano i colori, producendo bellissime immagini mentali. Da lontano giunge l’eco di una canzone che mi sembra di conoscere. Non dovrebbero mandare certe canzoni in certe ore del giorno.
Quieta è calata la sera, senza un sospiro. L’aria ha la fissità cerimoniosa dell’estate. Un amico mi ha invitato a rinverdire esperienze lontane con un aperitivo in compagnia, una enclave mondana, ora che mi stavo riabituando alle serate sul terrazzo, sorseggiando vino bianco e sognando di musica. I sogni di musica fanno compagnia, ombre fruscianti che apprezzano la profondità della notte, i suoi respiri nascosti, i i suoi gemiti. Il mare è calmissimo.
Erano due anni che non facevo una nuotata seria a mare. Ho guardato l’obiettivo, la punta esterna degli scogli, e mi sono avviato. All’inizio sono stato un po’ incerto nella bracciata, poco fluido nel movimento rotatorio che favorisce la respirazione. Poi poco a poco ho acquistato scioltezza e fiducia in me stesso. Anche l’assetto di marcia si è stabilizzato, insieme al ritmo della respirazione. Ho sentito scorrere nelle vene una nuova fiducia e nuova linfa nei muscoli. La scia di sole che imbrillantinava il percorso di superficie rendeva più festoso il riflesso sottomarino, che ormai percepivo in tutta la sua ampiezza visto che avevo cominciato ad alternare braccio destro e braccio sinistro, come in piscina. In piscina si ha la linea nera sul pavimento, a mare il cangiante movimento dei raggi del sole che ne bucano la superficie ondulata. I muscoli si stavano liberando dal peso della materia, anche se si sentiva a tratti lo sforzo e il peso del tempo. Nelle arterie fluiva una nuova libertà. Un liquido nuovo. Un nuovo respiro.
Queste esperienze sono confluite in una mostra dal titolo “Cilentum Blues”.

L’esperienza di crescita di un artista si misura con le scoperte che fa. Bisogna avventurarsi nel mondo dell’arte, una foresta lussurreggiante di opere, nomi, autori, correnti, stili. Per cercare di orientare comincio a studiare seriamente la storia dell’arte all’università (insieme alla filosofia e alla musica). Mi rimarrà sempre questa tentazione oscillatoria tra arte e musica. Il primo incontro è con i grandi maestri della “Sapienza” di Roma, gente come Maurizio Calvesi, Nello Ponente e altri altrettanto grandi. L’esame di Storia dell’arte contemporanea è una miniera di notizie sul mondo attuale dell’arte. Scopro l’arte del Novecento, e soprattutto quella del secondo Novecento
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