Derivato dal latino tardo propheta e dal greco prophétes composti entrambi dal verbo pro (per conto di) e phemí; (io parlo), il termine profeta ha nel tempo subito una metamorfosi semantica: da una dimensione vicaria, ma priva di autonomia caratterizzata da una funzione di rimemorizzazione nonché, al più, depositaria di un mandato a termine e dal contenuto definito, è scivolata a voce che descrive e definisce il futuro. In breve la profezia ha assunto e si è sovrapposta al lemma premonizione, conoscenza e rivelazione del futuro. Questo passaggio è il risultato di un processo nel tempo che consente di parlare di continuità come di metamorfosi dell’esperienza profetica nonché di memoria di quell’esperienza.
Il profetismo ebraico
Un’importante e originale manifestazione di profetismo è quella che si trova nell’Antico Testamento. Alla base della missione profetica stanno l’ispirazione e la chiamata di Dio, spesso inattesa, o anche non voluta: vi sono casi in cui il profeta appare riluttante alla sua missione. La vocazione ha carattere individuale; ma dai dati biblici risulta pure l’esistenza di corporazioni dei profeti e la loro connessione con il culto regolare. Il profetismo pertanto si presenta nell’Antico Testamento sotto aspetti molteplici; ai quali va aggiunta la frequente distinzione tra veri e falsi profeti, connessa alla condanna di questi ultimi. L’Antico Testamento documenta l’esistenza di profeti cananei, caratterizzati dal loro agire in uno stato di esaltazione psichica, del quale sono conseguenza atti come lo spargimento del proprio sangue. In questo precedente può trovarsi un inquadramento del profetismo ebraico e una chiarificazione di alcune sue forme: è indubbio tuttavia che, nel suo contenuto e nelle sue realizzazioni, esso attinse il più alto grado di originalità.
Le vie attraverso cui Dio si rivela ai profeti ebrei sono i sogni e, soprattutto, le visioni: si tratta di azioni sulla fantasia, nelle quali la volontà divina appare sovente per simboli, o semplicemente di azioni sull’intelletto, nelle quali Dio parla e ingiunge di parlare senza l’ausilio di alcuna immagine. Conseguenza delle rivelazioni è lo stato di estasi, descritto accuratamente per alcuni profeti: le forze vengono meno, le membra tremano, la vista si annebbia, il respiro manca prima che la parola divina trovi la via dell’espressione.
L’attività del profeti si realizza nell’azione e nella parola: azioni simboliche attraverso le quali i profeti fanno intendere al popolo quanto hanno in animo, parabole, che attraverso immagini tendono allo stesso fine, e infine oracoli, i cui p. direttamente esprimono quanto intendono. Gli elementi essenziali della predicazione sono: proclamazione dell’unico Dio; affermazione della giustizia e della moralità, sia individuali sia sociali; purificazione del culto; annunci di punizione, consolazione e redenzione universali.
Alla venerazione di cui erano circondati i p. si univano spesso la reazione e l’ostilità. La storia della monarchia ebraica, specie nell’età dei regni divisi, è spesso storia del contrasto tra potere politico e autorità carismatica dei p.; ed è indubbio che la conservazione del monoteismo ebraico attraverso il tempo si deve in gran parte all’ammonizione e al richiamo plurisecolare dei profeti. La tradizione ebraica considera Mosè come il primo p.; più tardi, nel periodo dei Giudici, attribuisce lo stesso titolo a Debora e a Samuele. Tuttavia, in senso stretto, si è soliti far cominciare il movimento profetico dal 9° sec. a.C., durante il quale agiscono nel regno d’Israele Elia ed Eliseo, cui si deve l’abolizione del culto fenicio sotto il re Iehu. Questi primi sono chiamati spesso p. attivi , in opposizione ai posteriori, a partire dall’8° sec. a.C., chiamati o scrittori, perché si servono della parola e degli scritti per ammonire il popolo. I p. attivi, di cui abbiamo i relativi libri, sono: per il periodo precedente all’esilio babilonese (586 a.C.), Amos, Osea, Isaia, Michea, Nahum, Sofonia, Abacuc, Geremia e probabilmente Abdia; per il periodo dell’esilio (586-538 a.C.), Ezechiele e Daniele (che nel canone ebraico non è incluso tra i profeti); per il periodo successivo, Aggeo, Zaccaria e Malachia; di epoca incerta, Gioele. Tra i p. rapsodici emergono, per l’ampiezza e l’importanza delle loro rivelazioni, Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele: a loro va il nome di p. maggiori , in opposizione agli altri detti minori . Malachia, che agisce intorno alla metà del 5° sec. a.C., chiude la serie dei p. ebrei.
Il termine prevalente è quello di navì termine dalla radice incerta che sembra alludere all’accadico “nominare, chiamare”. Altre volte ricorrono altri termini come ro’eh (veggente) o hoze (visionario).
Si potrebbe osservare come lungo l’esperienza si consolidi l’immagine di una funzione che non è appunto quella del veggente, ma quella dell’ammonitore. La vicenda del profeta e la sua comunicazione è al “presente” e si svolge entro coordinate temporali e in contesti che sono propri di un tempo specifico. La sua azione e la sua parola hanno un valore non solo dentro un tempo, ma sono significative rispetto a un passaggio (istituzionale o storico). In ogni caso sono in relazione con un evento concreto. Esemplari sono, da questo punto di vista, i diversi contesti che distinguono atti, parole in cui si colloca Isaia, ovvero nel contrasto che lo oppone al re Acaz in occasione della guerra siro-efraimitica (Is 7,1-2), oppure l’intreccio con le questioni sollevate dalla rivoluzione maccabaica sotteso al sostrato apocalittico presente nel libro di Daniele.
In questa chiave si potrebbe osservare come all’interno dell’ebraismo la figura del profeta abbia una natura storica, ossia si fondi non su una esperienza mistica o su una teologia, comunque su una costruzione fondata su un mito o sul legame tra cielo e terra. A fondamento della sua azione sta una sequenza di azioni-rivelazioni divine che si incarnano in eventi storici o comunque si fissano nella storia o su un principio di fede. Il profeta agisce in pubblico ed è un uomo storico, ma comunica simbolicamente, talora attraverso azioni e atti che hanno la funzione di indicare il futuro, ma anche di esprimere figuratamente la condizione materiale e “spirituale” presente. In questo senso il profeta è un simbolo (Ez 12,6 e 12,11). In questa dimensione della comunicazione simbolica sta un secondo aspetto della comunicazione profetica e della funzione del profeta.
Questo secondo aspetto, tuttavia, immette a un terzo in cui segnatamente si manifesta anche una dimensione di futuro. Un futuro che non è intravisto come rivelazione, ma che si fonda su una rilettura e rimemorizzazione del passato e delle azioni salvifiche divine che nel passato si sono prodotte, ricondotte nella condizione presente e perciò aperte a una possibilità positiva del e nel futuro (Ez 40-47; ma anche Is 34-35).
Ma questo aspetto non definisce che il successo o l’adesione al richiamo proposto e/o suscitato dalla comunicazione profetica. La “verità” del profeta non sta nella sequenza di atti o di annunzi che avvengono, bensì nella non rottura del patto precedente di cui egli è solo un testimone (Dt 13,2-4).
Il profetismo nel cristianesimo
Nel cristianesimo primitivo la profezia, sia nel senso di ammonimento alla comunità sia nell’altro di predizione di eventi futuri, fu uno dei carismi più importanti, come si ricava specialmente dalle lettere di s. Paolo; e nello stesso canone del Nuovo Testamento è accolto un libro profetico, l’Apocalisse. Anche la letteratura apocrifa e quella apostolica sono ricche di elementi profetici, sia che vi si accenni al futuro della Chiesa, sia che vi si cerchi di precisare gli avvenimenti degli ultimi tempi. Ancora più vivo l’impulso profetico in alcune tendenze ereticali come il millenarismo, che tentò di interpretare letteralmente profezie precedenti relative agli ultimi tempi, e il montanismo, che, in fervida attesa degli ultimi tempi, rivalutò il carisma della profezia contro l’autorità della gerarchia.
È il passaggio che si consuma anche nell’esperienza cristiana ed evangelica. È la retorica della enunciazione di Gesù a Nazareth (Lc 4) e del suo riconoscimento profetico (Lc 7,16). Ma è anche il passaggio che sancisce lo statuto della figura di Giovanni Battista, la cui vocazione (Lc 3,1-6) si modella su quello dell’esperienza profetica vetero-testamentaria (p.e. At, 11,27; 21,10-11). Nei padri della Chiesa l’estasi non è segno della profezia o della dimensione profetica. Sotto questo aspetto insisterà particolarmente Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (1 Cor, 14,1-3 e 12,10). Il motivo è il contenimento del fenomeno dei falsi profeti.
In questo senso la fissazione del canone profetico nella figura di Gesù consente un doppio passaggio: di riconoscere nella sua figura la realizzazione della promessa escatologica annunciata in Dt 18,15 (“Il Signore tuo Dio potrà far sorgere un profeta dal tuo seno, fra i tuoi fratelli come me; a lui dovrete prestare ascolto“), un passaggio ampiamente sottolineato nelle fonti neotestamentarie (At 3,22 e 7,37; Gv 6,14 e 7,40), ma anche di considerare finita l’esperienza profetica e di riconoscerla non più dentro un atto comunicativo, ma dentro una visione. Il significato dell’Apocalisse, il testo che chiude il canone, è in questo senso esemplare. La profezia più che un richiamo, diviene un deposito di immagini e di scenari – una visione profetica della storia – mentre il suo uditore ha il compito non di richiamarli ma di conservarli nel tempo (secondo la raccomandazione contenuta in Ap 1,3 e 22,7).
In questa dimensione della storia insiste una lettura in area islamica. All’interno del testo coranico il profeta è l’inviato di Dio. Anche per questo Muhammad è l’ultimo profeta. La visione profetica tende a proporsi, così, come visione del futuro fondata sulla fede. In questo senso la dimensione profetica si propone come un racconto parenetico, un testo in cui sono prevalenti l’esortazione e l’ammonizione che acquistano così una funzione narrativa, ma in cui non si stabilisce un canone. L’esperienza profetica non ha perciò un connotato di contesto, di racconto collocato in un tempo, ma diviene una dimensione iconica. Non un racconto esemplare, ma un testo che serve da parabola.
Il profetismo medievale
Mentre il cristianesimo antico si chiude con la personalità di s. Agostino, avversario di ogni atteggiamento che evada dall’autorità gerarchica e pertanto ostile al profetismo, alle soglie del Medioevo Gregorio Magno sente sé stesso profeta, come annunciatore delle vicende degli ultimi tempi, che devono quanto prima realizzarsi. Si riaccende così la profezia non più come carisma, bensì come annuncio dell’imminenza del ritorno di Cristo e del suo giudizio, o anche come esame della propria epoca, intesa come età in cui già si realizzano i preannunci del giudizio divino. Tra il VI e il IX sec. compaiono, variamente rimaneggiate da testi greci, le opere profetiche di Metodio, pseudovescovo di Patara, e della Sibilla Tiburtina, e un numero cospicuo di operette minori, esortazioni e ammonimenti di ogni genere, che hanno avuto notevole importanza nella vita religiosa e politica dell’epoca.
Suggestioni profetiche si riscontrano tra le turbe della prima crociata e nei moti antisemitici della metà del XII sec., che vide fiorire personalità profetiche di notevole rilievo come Ildegarda di Bingen. In una posizione particolare è Gioacchino da Fiore: nell’esame della ‘concordia’ del Vecchio e Nuovo Testamento e dell’Apocalisse, si eleva da una considerazione dello sviluppo religioso del popolo ebraico e del mondo cristiano a un vero e proprio ministero di profeta, nel senso biblico della parola, verso la Chiesa del proprio tempo e verso quello che sarà il suo futuro. A seguito dell’opera di Gioacchino il profetismo del Medioevo acquista, nel XIII sec., un’importanza di primo piano, divenendo elemento discriminante di controversie politiche e religiose.
La profezia nella filosofia medievale
Conoscenza profetica
La profezia come visione. Nell’alto medioevo latino la definizione corrente di profezia è quella data da Cassiodoro <testo1>, cui si riallaccia esplicitamente Pietro Lombardo per concludere che “la profezia è detta visione, e il profeta è detto veggente”. Più complessa, la concezione elaborata da Agostino nel De Genesi ad litteram (Commento letterale al Genesi, 12.9.20) distingueva fra i segni inviati allo spirito in forma di figure corporee e l’interpretazione di essi. In ogni caso, già l’elemento della visione permette di accostare la profezia alla tipologia degli atti cognitivi, indipendentemente da quali ne siano i contenuti (ovvero, non è necessariamente conoscenza di eventi futuri). La profezia è una modalità di conoscenza di origine extra-sensoriale, in cui l’atto interpretativo introduce il fattore concettuale-linguistico. Secondo Pietro Lombardo, dunque la conoscenza profetica parte da un’immagine vista, di cui possono darsi tre casi: visione corporea, visione spirituale (che può avvenire anche nell’estasi o nel sogno) e visione intellettuale; Bernardo da Chiaravalle ne aveva sottolineato il carattere illuminativo. Nelle opere di Ildegarda di Bingen e in quelle di Gioacchino da Fiore i vari aspetti della profezia erano stati elaborati nella loro pienezza, in un contesto culturale favorevole che permette di riconoscere nel contesto del XII sec. una vera e propria ‘filosofia profetica’ (Davy). L’elemento della visione, che porta il discorso sulla profezia a interagire anche con il tema della visione beatifica, e la diffusione di racconti agiografici e di scritti basati su esperienze visionarie fra XII e XIII sec., richiamarono l’attenzione dei teologi scolastici su questo fenomeno. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino affrontano entrambi il problema nei termini di una modalità di conoscenza che, se può essere confrontata con la gnoseologia aristotelica, non risponde integralmente ai criteri epistemologici in essa implicati.
Conoscenza soprannaturale
Profezia è visione in questa vita (non è cioè visione beatifica) ed è visione esteriore e interiore, (‘ad extra’e ‘ad intra’), dichiara Alberto Magno; enuncia cose lontane dall’esperienza immediata, è sempre ispirata da Dio ed è segno della prescienza divina (il profeta vede ‘nello specchio dell’eternità’). Sia Alberto che Tommaso discutono ampiamente se la profezia riguardi solo il futuro e se possa provenire da altri che da Dio, per esempio dai demoni: la risposta a questa seconda domanda è negativa; l’altra questione, invece, resta più oscillante. Di fatto l’equazione netta profezia-previsione di eventi futuri si affermerà solo in seguito. Per Tommaso, profezia è “conoscenza soprannaturale” che si configura sempre come ‘recezione’(acceptio), ma non si identifica con il ‘raptus’ cioè con la condizione estatica: quest’ultima, che produce la visione di Dio, è considerata infatti superiore alla profezia, che è una conoscenza ‘obumbrata’ (caratterizzata dall’ombra, ovvero simbolica), alla quale è necessaria la comprensione intellettuale. L’Aquinate distingue accuratamente fra vari tipi di profezia in relazione alla condizione estatica, e nell’ordinamento di essi secondo un criterio di perfezione: poiché la profezia è necessariamente composta dei due momenti della visione e della interpretazione seguita dall’annuncio, Tommaso sostiene che in ogni caso l’annuncio implica la presenza a sé del profeta poiché avviene mediante segni sensibili (la parola o l’azione), così come la visione sensibile e quella intellettuale; la ‘visio imaginaria’ invece avviene sempre in condizioni di alienazione dai sensi: se ciò è dovuto a malattia, la visione non è profetica, mentre se ciò è dovuto a sonno o a concentrazione estrema, allora la visione è profetica. Il valore cognitivo, generalmente nel senso della predizione, attribuito tradizionalmente ai sogni e recepito nella cultura medievale, viene così confermato. In ogni caso, elemento indispensabile è che la visione sia accompagnata dal ‘giudizio’ (iudicium), ovvero che il soggetto profetante riconosca il carattere simbolico di ciò che vede e sappia interpretarne il significato; può esservi addirittura profezia anche solo come ‘iudicium’ e cioè come annuncio di qualcosa di conosciuto senza la mediazione dei sensi e dell’intelletto e senza alcuna visione. Dalla riflessione di Tommaso prenderà le mosse quella del più famoso profeta di età umanistica, Gerolamo Savonarola che, come già avevano fatto gli autori alto-medievali e gli esponenti dei movimenti millenaristi e spirituali nel XIII sec. (gioachimiti, seguaci di Pietro di Giovanni Olivi), farà della parola profetica lo strumento privilegiato di un intervento riformatore nella società politica del suo tempo. Tutte le forme di profezia sono comunque inequivocabilmente connotate come conoscenza, per quanto diversa sia dalla conoscenza sensibile (di cui la visione è per la maggior parte degli scolastici il modello più alto), sia dalla conoscenza astratta. Essa essa conferisce certezza poiché pone in contatto con la fonte di ogni conoscenza: in questo aspetto si riconosce un interessante parallelismo col profetismo islamico, il cui carattere cognitivo è posto nei termini della congiunzione del soggetto con l’intelletto agente.
Il dileguarsi del profetismo nel XIV e XV secolo
Con il XIV sec. il grande profetismo tende a scomparire e nel XV sec. si muta sostanzialmente in calcolo astrologico, provocando la dura reazione di Pico della Mirandola; a Firenze, da un lato il profetismo tende a essere razionalizzato da Marsilio Ficino, dall’altro si colora di estreme tensioni bibliche nella predicazione dell’ultimo grande p. del Medioevo, Girolamo Savonarola. Il profetismo si riaccese più tardi nei movimenti rivoluzionari che accompagnarono lo sviluppo della Riforma protestante (anabattismo, spiritualismo).
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