Basilicata bizantina

Il nome Basilicata è di chiara origine romea e deriva molto probabilmente da βασιλικός, termine non specifico designante genericamente un funzionario bizantino (allo stesso modo la Capitanata – regione che corrisponde all’antica Daunia e odierno Foggiano – deve il nome al κατεπάνω bizantino).La denominazione di Basilicata compare però in età posteriore al dominio bizantino, durante il quale la parte della regione sottomessa ai Romei conservò l’antico nome di Λουκανία. Lo si rinviene per la prima volta nel Catalogo dei baroni normanni del 1154, ma solo da un documento angioino del 1276-77 si possono chiaramante rilevare i limiti del «Giustizierato della Basilicata», limiti grosso modo corrispondenti a quelli attuali, eccezion fatta per l’exclave materana staccata dalla Puglia nel XVII sec.

Il termine di Basilicata (il cui aggettivo – basilisco – non riuscì mai ad imporsi, sostituito da quello di lucano), per quanto risultasse impopolare agli abitanti della regione, doveva rimanere fino al 1932, salvo che durante le brevi parentesi rivoluzionarie del 1799 e del 1820. Nel 1932 veniva ufficialmente abolito e sostituito con quello di Lucania. Il cambiamento non fu duraturo giacchè con la costituzione repubblicana (1947) venne ripristinata la denominazione di Basilicata.
Il thema di Lucania – istituito forse nel 968 – comprendeva all’incirca tutto il territorio della Lucania romana, includendo la Calabria tirrenica settentrionale e parte dell’attuale provincia di Salerno. Era delimitato ad oriente dal golfo di Taranto, a nord dal monte Vulture e dalle montagne a sud di Potenza, a occidente si estendeva fino al Tanagro e al Vallo di Diano mentre a nord-est raggiungeva il Basento.
Secondo alcuni studiosi questa entità amministrativa avrebbe avuto come capoluogo Toursikon (l’attuale Tursi), secondo altri Cassano.

La presenza di un Eustazio Skepides, stratego di Lucania, è attestata dalla sua firma posta in calce ad un atto pubblico (sentenza a favore di Clemente Muletzi) che porta la data del 1042.

Il thema scomparve intorno al 1050, quando la regione fu occupata dai Normanni.

San Basilio chiesa rupestre di S.Margherita, Melfi, XIII sec.


Tra l’VIII ed il X secolo la Basilicata si trovò al confine tra la zona d’influenza della cultura greca, rappresentata dal Catepanato bizantino e quella latina, rappresentata dai Principati longobardi legati al Papato. I monaci basiliani (1) per parte greca e quelli benedettini per parte latina costituirono i canali di divulgazione delle rispettive culture. La ricerca di sicurezza e protezione, nell’ambito di un territorio di confine soggetto a continui scontri armati tra Longobardi e Bizantini, nonché esposto lungo la fascia costiera alle incursioni saracene, spinse i monaci e la popolazione ad occupare le grotte naturali ed artificiali dell’interno, determinando lo sviluppo di insediamenti rupestri.L’architettura religiosa rupestre lucana appare quindi caratterizzata, nell’impianto architettonico e nella decorazione, dalla commistione e sovrapposizione di tratti riconducibili ad entrambe le culture.

Le influenze della civiltà bizantina, ad ogni modo, non sedimentarono nel profondo delle coscienze al punto da trasformarle completamente, ma vennero assorbite nel sostrato preesistente, contribuendo a rendere più ricca di contenuto la civiltà del Mezzogiorno d’Italia latino, successivamente vivificata dai Normanni. Questi ultimi, istituzionalizzando i monasteri e adottando una politica di tolleranza, agirono, nell’XI secolo (2), da catalizzatore tra le due culture e si posero, al contempo, come i diretti e legittimi continuatori della civiltà occidentale.

Note:

(1) Una prima ondata di monaci basiliani raggiunse la regione per sottrarsi alle persecuzioni iconoclaste intraprese dall’imperatore Leone III a partire dal 730. Successivamente, tra il IX ed il X secolo, la loro presenza ebbe un ulteriore incremento a seguito della conquista araba della Sicilia.
 (2) Il catepano Stefano Paterano consegna a Roberto il Guiscardo le chiavi di Bari, l’ultimo caposaldo bizantino in Italia, il 15 aprile del 1071.

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L’abbazia di Sant’Angelo al Raparo

L’abbazia di Sant’Angelo al Raparo

La facciata absidale prima del crollo del tetto e della cupola
Si tratta di un monastero costruito nel 984 da un gruppo di monaci basiliani, guidati da San Vitale da Castronuovo, che trovarono nella grotta di monte Raparo – già dedicata al culto dell’Arcangelo Michele – circondata da vegetazione rigogliosa, una dimora stabile e sicura per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste che vessarono molti nuclei di monaci bizantini, costretti a cercare rifugio nelle zone più interne e impervie della Calabria, della Puglia e della Basilicata (come la zona del Raparo), considerata a quei tempi inaccessibile.

La facciata absidale come si presenta attualmente dopo i lavori di restauro non ancora ultimati.
Il katholikon del monastero, edificato al di sopra della grotta, presenta una pianta a navata unica voltata a botte e incrociata da un transetto rudimentale anch’esso voltato a botte. Lateralmente si aprono delle piccole cappelle, le cui volte, simili alle precedenti, si elevano fino al livello della botte centrale. Nel mezzo, su quattro mensoloni ad angolo, s’ innalza il tamburo cilindrico, su cui poggia la cupola. All’esterno il tamburo della cupola e l’abside aggettante all’esterno sono decorati con archetti leggermente rilevati. La cupola a calotta è ricoperta da un tetto a gradini.


Della decorazione a fresco si distinguono oggi a malapena alcune figure di santi vescovi disposte in fila nel registro inferiore dell’abside. I santi tengono in mano dei lunghi cartigli che recano scritti in greco salmi in lode dell’Onnipotente. Alcuni sono vestiti con le cappe ornate dalle croci nere dei monaci basiliani e tutti indossano l’omophorion che ne attesta la dignità vescovile.
Secondo le scarse notizie reperibili nelle fonti scritte nell’abside era raffigurata la Comunione degli Apostoli, mentre sul muro a sinistra prima dell’innesto dell’abside, al di sopra dell’altare della prothesis, era raffigurato San Lorenzo, uno dei diaconi della Chiesa, che aveva il compito di assistere il sacerdote ed aiutarlo a distribuire l’eucarestia.


La grotta sottostante è ricca di stalattiti e stalagmiti, con numerose gallerie e vasche a più gradini, bagnate dalle acque della fonte Trigella (dal latino trigelida = molto fredda). Questa ha la particolarità di produrre acqua solo in primavera e in estate, per poi essiccarsi completamente in inverno. L’umanista Giovanni Pontano nel poema Meteore (1505) narra che la fonte è legata alla leggenda della ninfa Ripenia che, per sfuggire al fauno Crapipede, si rifugiò nelle vasche della Trigella. Il fauno per vendicarsi fece prosciugare la sorgente e rese l’acqua non potabile.
Poco dopo l’ingresso si aprono, scavate nel tufo, delle celle, e su una delle pareti dell’angusto corridoio, per cui si accede all’interno, si vede dipinto un religioso inginocchiato davanti alla figura dell’arcangelo Michele rappresentato in abiti regali e con il globo crucigero nella mano sinistra databile all’XI secolo. 


Dopo il progressivo abbandono, probabilmente nel corso del XVI secolo, dell’insediamento monastico – trasformato in abbazia con il subentrare dei monaci benedettini tra il 1291 ed il 1308 – alcuni dei suoi pregevoli arredi furono trasferiti nella chiesa matrice del paese di San Chirico, dedicata ai SS. Pietro e Paolo, dove ancora si trovano.
Il polittico attribuito a Simone da Firenze: attualmente collocato nel presbiterio a sinistra dell’altare maggiore, fu eseguito nel 1531 circa. Nella predella – opera probabilment di mani d’aiuto – è raffigurata l’Ultima cena. Nel registro sovrastante, da sinistra a destra: San Benedetto, San Michele Arcangelo e San Gregorio Magno. Ai piedi di San Gregorio e di San Benedetto sono inginocchiati rispettivamente, come recita l’iscrizione, Antonio di Sanseverino, che fu abate dell’abbazia di Sant’Angelo e Ugo di Sanseverino, conte di Saponara, committenti dell’opera. Nel registro superiore sono raffigurati la Natività al centro con Santa Lucia e San Donato nelle tavole laterali. Nella cimasa, al centro l’Altissimo, affiancato dalla Vergine Annunciata e dall’Arcangelo Gabriele. 

 Al di sopra dell’altare maggiore spicca un Crocefisso ligneo del XIV secolo proveniente anch’esso dall’abbazia di sant’Angelo. 


Chiesa di Santa Maria d’Anglona

Chiesa di Santa Maria d’Anglona

Facciata occidentale
Si erge isolata sul colle d’Anglona, a metà strada tra Tursi e Policoro.
L’edificio attuale è stato eretto tra l’XI ed il XII sec. come ampliamento di una piccola chiesa preesistente del VII-VIII sec, corrispondente alla cappella che si apre sul lato destro della chiesa attuale.

Si tratta di una chiesa episcopale latina, che venne ad ammantarsi di un programma dipinto more graeco per attendere ad un progetto fortemente radicato su istanze cattolico romane.Esternamente presenta un prospetto a coronamento orizzontale, solo su un lato affiancato da una torre campanaria, a base quadrata, ornata con bifore romaniche a doppia colonnina.

Ingresso 
L’ingresso della chiesa è costituito da un nartece quadrangolare con volta a crociera innervata da costoloni e quattro colonne agli angoli.La facciata del nartece presenta delle formelle figurate con l’Agnello e i simboli dei quattro evangelisti, un archivolto d’ingresso, ornato con diverse testine umane e di animali, disposte radialmente, e un portale decorato con un motivo a denti di sega.L’abside, piuttosto profondo, presenta una finestra fiancheggiata, all’esterno, da due colonnine sotto un coronamento di archetti pensili, lesene e alcune formelle adorne di teste di bue, di tigri, di pesci, di pavoni, di cervi e di rosoni a rilievo piatto, che il Valente riferisce all’XI-XII secolo.

Abside, a sinistra il prospetto orientale della cappella
All’interno la chiesa presenta una pianta a tre navate a croce latina ma il transetto non sporge rispetto al fronte delle navate che appaiono separate da dieci pilastri che reggono, a destra cinque archi a tutto sesto, a sinistra cinque archi a sesto acuto.Dal lato destro del transetto si accede, all’interno, in una piccola cappella (la fabbrica originaria della chiesa) a navata unica, con un abside semicircolare e con il muro di sinistra in comune con quello della navatella e del transetto.Purtroppo, non si hanno documenti certi circa la data di costruzione della più antica fabbrica della chiesa.In origine la chiesa attuale era completamente ricoperta di affreschi. Nella navata centrale si sviluppavano gli episodi vetero-testamentari e il ciclo cristologico, che si concludevano sulle pareti del vano d’ingresso.Sulla controfacciata, invece, doveva svolgersi il tema del Giudizio Universale e, sulla parete delle due navatelle, le storie degli Atti degli Apostoli. Tali pitture erano, poi, integrate da una vasta antologia di santi sui pilastri divisori di navata e sulle pareti delle navatelle, di evangelisti sui pilastri di crociera e di profeti sui pennacchi delle arcate.Oggi, gli affreschi rimasti si sviluppano, in sequenza, a partire dall’abside, sulla parte alta della parete di destra della navata principale e su parti dell’adiacente navatella, sulla sinistra (crollata per cause imprecisate e ricostruita) restandone soltanto poche tracce in prossimità della crociera.La decorazione dell’abside centrale è completamente perduta, mentre le absidiole conservano frammenti della testa di Pietro sulla sinistra, dell’arcangelo Michele sulla destra. 

San Pietro

L’Arcangelo Michele
Solo un evangelista resta a testimoniare la loro presenza, come pure resta solo l’immagine di S.Giovanni Crisostomo, presso l’absidiola settentrionale, senza che ne sia rimasta nessuna degli altri grandi vescovi; dei profeti sui pennacchi della parete meridonale se ne riconoscono quattro: Daniele, Amos, Abdia e Ezechiele.La parete della navata è divisa in due registri; in quello superiore si sviluppano gli episodi della Genesi, con la Separazione della luce dalle tenebre, della terra dalle acque, la Creazione di Adamo ed Eva, il Peccato, la Cacciata dal Paradiso Terrestre, il Lavoro dei progenitori, Caino e Abele, l’Uccisione di Abele, Rimprovero di Caino; nel registro inferiore si susseguono gli episodi dell’Arca, di Noè ebbro, della Torre di Babele, dell’Ospitalità di Abramo, dell’Offerta di Abramo a Melchisedek, del Sacrificio di Isacco, della Benedizione di Giacobbe da parte di Isacco e della Lotta di Giacobbe con l’angelo.

La torre di Babele
Le scene neotestamentarie erano invece raffigurate sulla parete della navata sinistra.Gli affreschi erano, un tempo, accompagnati – e ancora in parte lo sono – da iscrizioni greche, su cui se ne sovrapposero altre latine, conservate soltanto in pochissimi punti della parete.


Il Convicinio di Sant’Antonio, Matera

Il Convicinio di Sant’Antonio, Matera

Al termine di una leggera salita nel Sasso caveoso, un elegante portale, sormontato da un arco a sesto acuto, introduce in un cortile rettangolare sul quale si affacciano quattro chiese rupestri: il cosiddetto Convicinio di S.Antonio.

1. La prima chiesa, subito dopo l’arco di ingresso, è conosciuta con la denominazione popolare di Tempe cadute, un nome dato all’intero rione soggetto a continue cadute di massi (le tempe), ma era conosciuta in passato come cripta di San Primo.La cripta si articola in due cappelle divergenti divise da un pilastro che si rastrema in corrispondenza delle arcate. La volta è a vela con nervatura centrale, le lunette absidali presentano una croce equilatera a rilievo.

2. Attraverso un varco, sulla sinistra, si accede alla contigua chiesa di Sant’Eligio, anche denominata dell’Annunziata.
La cripta è dedicata a Sant’Eligio che è considerato il protettore degli animali domestici, un santo particolarmente venerato in passato, all’interno di una comunità come quella materana, a forte componente contadina e pastorale. Fu abbandonata e trasformata in cantina nel XVIII secolo, quando, in una piazzetta che ancora porta il suo nome, venne edificata nel rione del Piano una chiesetta a lui dedicata dinanzi alla quale venne eretta una colonna sormontata dalla sua statua. In questa piazzetta il primo dicembre, in occasione della festività del Santo, i contadini, i pastori ed i mandriani, portavano sin dalle prime ore del mattino i muli, i cavalli ed i buoi, per implorarne la protezione, facendoli girare intorno alla colonna.
La cripta pur dissestata e modificata, dopo la trasformazione in cantina, è ancora leggibile nella planimetria: un’ampia aula per i fedeli seguita dal presbiterio, delineata sul fondo da tre archi che delimitano altrettante absidi.
Nell’abside di sinistra in un’ampia lunetta decorata con una serie di riquadri, è raffigurata una deesis,  con al centro ilCristo con la mano destra benedicente ed il Vangelo aperto nella mano sinistra, affiancato da S.Giovanni e dalla Vergine (XIV secolo circa).

Le calotte absidale sono decorate da una croce. Numerose tracce di affresco rivelano la ricchezza con cui erano un tempo decorate le pareti della cripta.

3. La Cripta di San Donato presenta una pianta quadrangolare con due soli pilastri centrali che scompongono il piano delle absidi appena abbozzate. Le volte a tenda evidenziano gli spazi liturgici, a partire dall’ingresso si susseguono: il vestibolo, poi l’aula destinata ai fedeli ed infine il presbiterio per il sacerdote. La volta del presbiterio di sinistra si differenzia per l’elemento a crociera e quella centrale per un’ampia cupola con inscritta una croce gigliata a rilievo.

Di buona fattura gli affreschi: sull’arco che collega il pilastro di destra al muro esterno è visibile il volto di S.Donato con la mitra che copre il capo nimbato del Santo Vescovo. Sul pilastro di destra, addossato all’abside, l’immagine di San Leonardo in abito monacale, benedicente alla latina e reggente, con la sinistra il libro ed i ferri del martirio, elemento iconografico caratteristico di questo santo. In basso, genuflessa, la piccola figura del committente.
Sull’intradosso dell’arco absidale, a destra, nella parte alta, si nota un affresco, molto rovinato, di Santa Dorotea, giovanetta di Cesarea di Cappadocia che subì il martirio intorno al 311, la santa protettrice dei giardinieri.
Sulla parete di fondo dell’abside due scene seicentesche: a sinistra un Vescovo a cavallo che trafigge un drago, a destra il miracolo di un Santo Vescovo alla presenza di monaci e devoti.

4. L’ultimo ambiente è la cripta di S.Antonio che presenta tre navate absidate, con quella centrale voltata a schiena d’asino e innervata da un costolone. Nella zona absidale le volte a crocera recano croci gigliate scolpite. Lungo le tre navate è possibile vedere i palmenti per la produzione del vino, scavati quando la chiesa venne abbandonata e riutilizzata come cantina (XVIII secolo); tutti gli ambienti che si aprono sulla destra delle navate sono stati creati infatti durante questa fase di utilizzo della cripta, si può ancora notare il taglio dei gradini arrotondato per l’usura derivante dalla consuetudine di far rotolare le botti per le scale per posizionarle negli ambienti più profondi e freschi.
La decorazione parietale presenta, entrando a destra, sul primo pilastro, S.Antonio Abate (XV secolo), sul pilastro successivo San Sebastiano (XV secolo), mentre nella zona absidale della navata sinistra c’è una scena devozionale risalente al XVIII secolo, probabilmente relativa al culto della Madonna di Picciano.


Il complesso della Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci, Matera







Il complesso della Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci, Matera

Chiesa della Madonna delle virtù

 La chiesa originaria fu scavata nella roccia nell’XI secolo con una pianta a tre navate scandite da due file di tre pilastri e con un ingresso interno che immetteva nella parte terminale della navata sinistra (l’ingresso attuale venne aperto nel corso di una delle numerose ristrutturazioni della chiesa). Nel 1674 (data incisa sull’architrave dell’ingresso) fu operato un intervento di ristrutturazione che ruotò di 180° l’asse della chiesa, collocando un altare di stile barocco sotto l’arco dell’originaria navata destra (lì dove oggi si trova l’ingresso ad una cava tufacea aperta successivamente) ed eliminando due pilastri. Un’altro intervento, con riduzione dell’ampiezza della chiesa, risale al 1934, in occasione della costruzione della strada di congiungimento dei due Sassi (caveoso e barisano) (1). Per dare spazio alla strada (oggi via della Madonna delle Virtù) fu tagliato il lato l’esterno della navata sinistra, distruggendo il raccordo esistente con la soprastante chiesa di San Nicola dei Greci.
I restauri del 1967 hanno infine ripristinato l’orientamento originale della chiesa.


Il presbiterio è sormontato da una cupola su cui è scolpita a rilievo una grande croce a braccia espanse con al centro una croce uncinata equilatera.
La volta della navata centrale è decorata da una serie di arcatelle a rilievo che formano uno straordinario matroneo simbolico.

Il matroneo simbolico scolpito sulla volta della navata centrale
La navata destra, alterata dall’apertura della già citata cava, presenta nella zona presbiteriale un’ampia nicchia con una bifora cieca. La cupola è decorata da una croce a braccia espanse centrata in un cerchio a rilievo da cui partono quattro raggi.
La navata sinistra ha un presbiterio quadrangolare, la cui cupola è decorata dalla croce a braccia espanse con un quadrato centrale in cui è inscritto un cerchio.

Affreschi:
Nell’abside centrale è affrescata una tarda Crocifissione (XVII sec.), sul fondo della navata destra, in un piccolo riquadro, una Crocifissione di epoca angioina (primi XIV sec.) mentre nell’abside di sinistra rimangono solo tracce della pittura parietale.

La Crocifissione (con S.Giovanni Evangelista e la Madonna) dipinta nella parte terminale della navata destra

Chiesa di S.Nicola dei Greci


La chiesa, situata al di sopra di quella dedicata alla Madonna delle Virtù, all’interno dell’omonimo complesso, ha subito dei crolli che hanno interessato soprattutto la parte anteriore alterando la pianta originale. L’accesso a questa parte della chiesa si presenta infatti ribassato rispetto all’attuale percorso ed è facilitato dalla presenza di due gradini. In questo vano sono ancora leggibili la parete di sinistra, dove si apre una nicchia con al centro un blocco di calcare, probabilmente un ambone, e parte della copertura.


Il piano di calpestio è realizzato nel banco calcarenitico ed al centro dell’aula è possibile notare un acciottolato realizzato per chiudere una buca che durante le fasi di scavo archeologico ha restituito ceramiche geometriche databili dall’VIII al VI sec. A.c. Da questo ambiente si accedeva nella zona presbiteriale, divisa in due navate, da un pilastro quadrangolare. Nella navata di sinistra è stato ricavato un ambiente, con volta a botte, dove è visibile un piccolo forno e un’apertura per comunicare con gli ambienti adiacenti alla cripta. Si tratta di stravolgimenti attuati nel XIX secolo, quando questi ambienti furono utilizzati come abitazioni. Sulle pareti della chiesa sono visibili degli affreschi di eccezionale fattura; sul pilastro (esterno), che divide le due navate un affresco, illeggibile a causa dello stato di usura e caduta dell’intonaco, rappresenta una Santa anonima, vestito di un abito riccamente decorato, stilisticamente bizantino, attribuibile al XII sec.

Nella navata di sinistra, un palinsesto, rovinato come il precedente e presumibilmente dello stesso periodo, rappresenta un santo monaco, di cui è visibile il volto barbuto, sovrapposto a due sante, che indossano ricchi abiti imperiali. 

S.Nicola, S.Barbara e S.Pantaleone Nell’abside, invece, sono affrescati tre santi orientali, S. Nicola, S. Barbara e San Pantaleone, identificabili dalle epigrafi in latino. S. Nicola veste un abito cerimoniale tipico bizantino e benedice alla greca e reca nella mano sinistra il Vangelo; S. Barbara veste abiti imperiali impreziositi da perline, un’acconciatura molto elegante, con i capelli avvolti in un velo e intrecciati da nastri rossi e bianchi; S. Pantaleone reca in mano il cofanetto con le ampolle simbolo della sua professione medica ed ha il viso cinto da un’aureola impreziosita da racemi vegetali, secondo l’uso cipriota. Questi tre personaggi, databili alla seconda metà del XIII sec., caratterizzati da una estrema severità nei volti e rigidità nello sguardo, da evidenti arcate sopracciliari e dalla spigolosità del setto nasale, traducono il linearismo dello stile comneno in un lessico autoctono. A destra del trittico è visibile una Madonna con Bambino, molto rovinata e lacunosa, databile al XII secolo; mentre in fondo è visibile un Santo Monaco con tunica e cappuccio a punta, databile al XIII secolo, identificabile o con S. Francesco o con San Nilo da Rossano.

 Nella navata di destra, nell’abside, è visibile una Crocifissione, datata XIII-XIV secolo, inserita in un riquadro di forma trapezoidale, con al centro Gesù Crocifisso, con il capo reclinato, classica posizione del Cristo patiens, e il corpo inarcato, sul lato sinistrola Vergine, mentre sul destro l’apostolo Giovanni con il mano il rotolo del Vangelo e il volto poggiato sulla mano destra. In alto, ai lati della croce, sono rappresentati il sole e la luna.

S.Antonio Abate e S.Pietro Martire Sulla parete destra è rappresentato S. Antonio Abate, in posizione frontale con il volto incappucciato e vestito con una lunga tunica, opera che mostra ancora l’influenza dello stile tardobizantino, anche se riferibile al XV secolo. Poco oltre la figura di S. Pietro Martire (2), riconoscibile dalla roncola conficcata nel capo, dal pugnale che gli trafigge il petto e dall’abito domenicano, in cui si riconosce invece una matrice tardogotica (XV-XVI sec.). Sul piano di calpestio sono visibili due sepolture medievali scavate nella calcarenite, probabilmente di personaggi di un certo rango sociale; altre sepolture, individuate all’esterno della struttura ecclesiastica fanno supporre la presenzaa di un’area cimiteriale.  Note:

(1) La parola Sasso nel significato di rione pietroso compare per la prima volta in un documento anonimo del 1204. Quanto alla distinzione tra i due rioni in Sasso Caveoso e Sasso Barisano vi sono diverse ipotesi.
Il Sasso Caveoso deriverebbe il suo nome dal latino cavea (cavità, grotta) perché le sue abitazioni sono per la maggior parte scavate nella roccia mentre nel Sasso Barisano sono molto più numerosi gli edifici costruiti, andando ad occultare le grotte sottostanti. Altra ipotesi è che il nome derivi dall’orientamento del Rione, rivolto verso sud, in direzione di Montescaglioso (Mons Caveosus).
Il nome del Sasso Barisano potrebbe a sua volta dipendere dall’orientamento del rione in direzione nord-ovest, verso la città di Bari. Oppure potrebbe essere legato alla presenza in epoca romana di un casale abitato dalla famiglia gentilizia Varisisius, da cui Varisianus e, in seguito, Barisano.
Sotto il profilo della composizione sociale delle rispettive popolazioni nel 1954 – quando vennero sgomberati a forza a seguito di una legge speciale varata dal governo De Gasperi – nel Sasso Barisano c’era una prevalenza di artigiani, in quello Caveoso di contadini e pastori.

(2) San Pietro martire (al secolo Pietro Rosini), nato a Verona nel 1205 c.ca, fu un predicatore domenicano che si battè strenuamente per l’ortodossia. Nato in una famiglia catara, si oppose precocemente al credo dei suoi genitori. Terminati gli studi presso l’università di Bologna entrò nell’Ordine domenicano. Nel 1251 fu nominato da papa Innocenzo IV inquisitore per Milano e Como dove l’eresia catara ed altre deviazioni erano particolarmente diffuse. La domenica delle Palme del 24 marzo 1252 durante una predica predisse la sua morte per mano degli eretici che tramavano contro di lui, assicurando i fedeli che li avrebbe combattuti più da morto che da vivo. Il 6 aprile dello stesso anno, mentre assieme ad alcuni confratelli sostava nei pressi di Meda percorrendo la strada che da Como portava a Milano, fu assassinato da un sicario assoldato dalle sette eretiche che combatteva, che gli spaccò la testa con una roncola e gl’immerse un lungo pugnale nel petto. Cadendo, intinse un dito nel proprio sangue e scrisse in terra la parola “credo”.
Lo sdegno suscitato dal suo assassinio in tutta la penisola fu tale che il processo di canonizzazione fu portato a termine in soli 337 giorni, divenendo uno dei più celeri della storia della Chiesa.



 


La cripta del Peccato originale, Matera






La cripta del Peccato originale, MateraSolo visita accompagnata su prenotazione.
Il luogo di incontro per poter effettuare la visita è presso la stazione di servizio “Grifo Gas” sulla SS7 direzione Potenza, al km 564, a circa 10 km da Matera. Tel. 320 5350910.


La Cripta, ubicata lungo le pareti della Gravina di Picciano, è una delle testimonianze più importanti di arte pittorica altomedievale nell’area mediterranea, sia per il valore teologico sia per il valore artistico del ciclo pittorico. Nella tradizione contadina la cripta è ricordata come la “Chiesa dei Cento Santi” per il fatto che vi sono molti affreschi (circa 41 mq.) che la illuminano e documentano il luogo di culto di un cenobio rupestre benedettino del periodo longobardo, quindi databile al IX secolo.L’interno della cripta, vagamente rettangolare, ha solo la parete di fondo movimentata da tre ampie nicchie disuguali (quasi una croce greca inscritta, ma senza colonne di partizione e troppo grande per riconoscersi in questo modello planimetrico).


Sulla parete di destra si svolge il ciclo della Genesi. Il primo episodio raffigurato, a partire da sinistra, narra la Creazione della Luce e delle Tenebre, metaforicamente rappresentate rispattivamente da una donna, dalla tunica decorata con perline e dai capelli spartiti sulla fronte, che alza in alto le braccia e da un uomo dalle braccia legate e incrociate sul grembo (uno schiavo). Il Creatore è qui rappresentato con il volto giovanile e imberbe e con il nimbo crucesignato, mentre con la destra benedice e con la sinistra stringe il rotolo della Legge.


Sul registro inferiore ed all’estrema sinistra della parete è raffigurata la purificazione liturgica di un vescovo: un diacono, con tunica drappeggiata, mantello giallo e tonsura sul capo, versa acqua, da un’anfora, sulle mani del prelato, raffigurato con una tunica chiara coperta da una casula rosa, decorata ai bordi da puntini, sulla quale pende il corto pallio latino, decorato da corolle e triangoli e con un piccolo copricapo a punta.Sul registro superiore prosegue il racconto della Creazione. Nella prima scena Adamo è in piedi, accanto al Redentore, del tutto simile al Creatore precedente; nella seconda scena appare soltanto la mano di Dio nell’atto della creazione.


Nella terza scena Eva viene fuori dal costato di Adamo, il quale, con un atteggiamento di devota gratitudine, protende le braccia verso la mano creatrice di Dio; nella quarta Eva, in piedi, è affiancata dal serpente, attorcigliato all’albero del peccato; nella scena finale Eva offre il frutto (1) ad Adamo.
Tutta la parete è trapunta da un tappeto di fiori (da questa caratteristica l’autore degli affreschi è stato denominato il maestro dei fiori) di un vivace color rosso ed è bordata, in alto, da una cornice gialla ornata di nero, con decorazioni puntiformi bianche e gemme rosso-nere.

Sulla parete di fondo le tre nicchie absidali contengono altrettante triarchie.

1) La prima presenta San Pietro, affiancato da Sant’Andrea e San Giovanni. Dell’immagine di Sant’Andrea (SCS ANDRE) rimane soltanto il capo ricciuto con i grandi occhi neri. San Pietro (SCS PETRUS), colto nell’atto di benedire alla maniera greca (con indice e medio tesi), calza sandali e indossa un’ampia e drappeggiata tunica grigia a bande gialle e mantello rosso. Alla sua sinistra San Giovanni (SCS IOANNES), rivestito anch’egli di tunica e mantello, alza la destra con la palma tesa, mentre, con la sinistra, mostra un libro riccamente rilegato.


2) La seconda triarchia mostra la Madonna con Bambino, adorata da due figure femminili. La prima di queste è priva di nome, la seconda è indicata con la scritta: SCA LUCOTIA.


La Madonna Regina indossa un sontuoso abito, color arancio, ricamato a cerchi e bordato di gemme che si infittiscono sulle spalle. Dal copricapo gemmato, a tre punte, cade un velo bianco che giunge quasi fino ai piedi e che, nel tratto terminale, si arricchisce di una frangia seghettata. Sul viso ovale scendono i capelli scuri divisi, sulla fronte, in due composte bande.
3) La terza composizione rappresenta i tre Arcangeli. Al centro San Michele, con tunica grigia a fasce gialle e mantello rosa, dello stesso colore delle ali, appare nell’atto di benedire con la destra e di reggere un piccolo scettro con la sinistra. La figura di San Gabriele, molto rovinata, è identica a quella opposta di San Raffaele. Entrambe reggono, con la mano sinistra, una sfera grigia e nerasimboleggiante il globo terrestre e, con la destra, una croce rossa; indossano tuniche grige a bande rosse, sotto un mantello bianco. I visi dei tre Arcangeli sono contornati da nimbi gialli orlati di nero e da una riccia capigliatura scura.


Le triarchie sono alleggerite dalla presenza della decorazione floreale verde e rossa, già presente sulla parete di destra. Soltanto sotto la triarchia apostolica è visibile un motivo decorativo insolito, costituito da larghe fasce a denti di sega sovrapposte, di diverso colore.
Le restanti pareti, un tempo anch’esse decorate, appaiono oggi spoglie o ricoperte da piccoli frammenti di affreschi illeggibili.L’intero ciclo di affreschi rivela, nel semplice linearismo, una chiara impronta occidentale (a partire dalle didascalie tutte in latino). Le figure, siano esse nude, come Adamo ed Eva, o sontuosamente vestite, come la Vergine, i Santi e gli Arcangeli, sono caratterizzate da un elementare grafismo che, concentrandosi prevalentemente sulle sagome delle figure, lascia al colore, morbido e vellutato, il compito di plasmare le forme. Anche l’espressività dei volti rimanda ad un ambito occidentale come le fattezze della Vergine – dai tratti giovanili e con i capelli che debordano dal velo mentre nell’iconografia bizantina sono sempre accuratamente coperti.
A detta degli studiosi, gli affreschi risalirebbero al IX secolo, ad un’epoca in cui forte era la presenza longobarda in Basilicata e in cui Matera gravitava nell’orbita del Ducato di Benevento.

Note:
(1) Il frutto che Eva offre ad Adamo è indiscutibilmente un fico e non una mela come anche, ad esempio, nello stesso soggetto dipinto molti secoli dopo da Michelangelo nella Cappella Sistina. Nella Genesi non è specificata la natura del frutto dell’albero della Conoscenza è però scritto che non appena Adamo ed Eva lo ebbero mangiato si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture (Genesi, III, 7)il che lascia supporre che l’albero in questione fosse proprio un fico. Il diffondersi in epoca mediovale dell’identificazione del frutto proibito con la mela potrebbe derivare da un errore di traduzione avallato perchè nel nord Europa il fico non era praticamente conosciuto.


L’abbazia di S.Ippolito, Monticchio

L’abbazia di S.Ippolito, Monticchio


Le rovine di questo sito appartengono a due chiese distinte parzialmente sovrapposte, che non hanno altro in comune se non il tipo di muratura a pietrame informe.
La prima chiesa presentava un’impianto a triconco a cui era anteposto un doppio nartece. Il nartece interno era separato da quello esterno da cinque pilastri a pianta quadrata a cui corrispondono, sui muri perimetrali, una serie di lesene collegate dallo sviluppo degli imbotti delle relative crociere. Il tutto era preceduto da un ampio atrio rettangolare. I muri laterali del nartece si prolungano infatti senza soluzione di continuità fino all’altezza della torre campanaria poggiando direttamente sul terreno senza fondazioni giacchè – al di fuori del nartece – non dovevano più esercitare una funzione portante ma solo quella di circoscrivere uno spazio scoperto.


Alle estremità NE e SE del nartece si trovano due absidiole che addolciscono il raccordo tra il muro perimetrale del nartece e quello della trichora. Non vi è certezza ma, molto probabilmente, lo spazio centrale quasi quadrato della trichora era sormontato da cupola.
Crollata o andata in rovina questa prima costruzione chiesastica, furono abbandonati i resti del nartece e del triconco e nell’atrio fu ricavata una chiesa a navata unica. Ai lati di questa si notano in effetti due ambienti rettangolari – che potrebbero far pensare ad una pianta a tre navate – ma i muri divisionali appaiono continui, senza tracce di arcate o di aperture, eccetto che nella zona presbiteriale, dove si rilevano i segni di una modesta porta di comunicazione tra la chiesa e l’ambiente laterale destro.

La freccia rossa indica i resti dell’impianto trilobato della chiesa più antica, quella nera l’abside della chiesa più recente. Sullo sfondo si staglia la sagoma massiccia della torre campanaria. Ad ulteriore conferma della trasformazione avvenuta, è l’osservazione che l’abside della nuova chiesa è realizzato in breccia su un muro rettilineo preesistente (quello del nartece del vecchio edificio). La costatazione che tra il pavimento dell’abside della nuova chiesa e quello del nartece della precedente ci siano circa 2 m. di dislivello fa inoltre escludere che tra i due edifici sia mai esistita una comunicazione.

Nartece della chiesa trilobata Dalla spoliazione dell’edificio si è salvato un grande omfalo pavimentale costituito da lastre di pietra calcare bianca e rossa.
Sull’angolo destro della facciata occidentale è completamente incorporata senza alcun aggetto una torre. Non è chiaro se questa sorse all’origine come struttura difensiva isolata o insieme all’atrio della prima chiesa, è comunque antecedente alla seconda chiesa giacchè appare parzialmente incorporata dall’erezione del suo muro divisionale. La torre risulta inoltre collegata ad un ambiente rettangolare absidato che si trova a pochi metri dalla torre.

Interno della chiesa a navata unica. In fondo la parete absidale
L’ipotesi più probabile è che la chiesa più antica – databile tra il VII ed il IX secolo – sia stata il katholikon di un monastero basiliano preceduta da un atrio sistemato a giardino molto in uso nelle chiese monastiche. Ipotesi confortata anche dalla dedica a Sant’Ippolito, di origine asiatica ma introdottosi con l’autorità del teologo nella comunità romana, il primo antipapa (217-235) della storia e martire, considerato dai monaci greci come un campione dell’ortodossia (1).
Con la progressiva espulsione dei bizantini dall’Italia meridionale, anche i monaci basiliani abbandonarono i loro monasteri e furono soppiantati dai benedettini che godevano della protezione normanna. Alla seconda metà dell’XI secolo (Melfi si arrende ai Normanni nel 1041) potrebbe quindi risalire l’edificazione della chiesa a navata unica.
Il complesso abbaziale fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1456 che provocò anche la morte di 50 monaci ed il successivo abbandono.

A Sud della chiesa più recente è stato messo in luce quasi completamente il chiostro, occupato da un cimitero di cui sono state indagate otto sepolture, tutte in fossa terragna, di forma antropomorfa, orientate EW / NW, in diversi casi destinate a deposizioni plurime con individui in posizione supina, con le braccia piegate sui fianchi o all’altezza del torace e piedi incrociati e prive di corredo. Attualmente, i dati archeologici riferibili a pochi frammenti di ceramica e ad una moneta di età federiciana consentono di datare la frequentazione del cimitero monastico ad un periodo compreso tra il XIII e il XV sec. d.C.Nell’area ancora più a sud delle precedenti fabbriche sono state messe in luce nuove e complesse strutture funzionali relative ad un ampliamento del monastero avvenuto in età normanno-sveva.
Di un ulteriore edificio di culto monoabsidato orientato EW, in gran parte esteso sotto l’adiacente proprietà privata, fa parte un abside ampia circa 3 metri, all’interno della quale è presente la base in muratura di pietrame dell’altare. Frammenti di intonaco e laterizi dipinti, alcune monete tra cui un follis anonimo bizantino, pochi frammenti ceramici ed elementi architettonici, testimoniano una frequentazione dell’edificio tra XI e XII secolo, mentre alcuni frammenti di ceramica invetriata policroma e un architrave decorato a rilievo testimoniano un attardamento nella frequentazione della struttura ai secoli XIII-XV.

Nello spazio retrostante e laterale all’edificio si distribuisce un vasto cimitero, la cui fase più recente, coeva con la chiesa appena descritta, restituisce materiali di corredo, soprattutto accessori dell’abbigliamento personale degli inumati, pochi frammenti di ceramiche e vetri e monete che ne attestano la frequentazione tra la prima metà del XII secolo e la metà del XIII. Diverse sono le tipologie di contenitori funerari: tombe a fossa terragna, tombe con tagli rivestiti da blocchi lapidei o tufo e destinate ad inumazioni plurime, diversamente orientate NS ed EW in posizione supina, con le braccia portate all’addome e le mani incrociate.Tre setti murari delimitano il cimitero, uno dei quali, orientato EW, presenta una superficie affrescata, parzialmente conservatasi ed interessata da un motivo policromo raffigurante una scacchiera a rombi obliqui in giallo e nero; la presenza di tale elemento decorativo testimonia l’esistenza di una struttura molto più articolata ancora da esplorare.

Infine, dietro l’abside della chiesa, una estesa chiazza di bruciato e numerosi residui della lavorazione del bronzo testimoniano la presenza di un impianto produttivo definito da una struttura in pietre e malta, orientata EW, da una piccola area con un apprestamento di pietre e concotto di forma ovale e da una buca da palo verosimilmente funzionale ad una copertura provvisoria. In assenza di reperti archeologici datanti, è ipotizzabile il suo impiego in età tardomedievale, forse in concomitanza con la defunzionalizzazione della chiesa stessa.

Note:

(1) Nato probabilmente in Asia Minore e successivamente trasferitosi a Roma, Ippolito si oppose all’eresia modalista propugnata da Noeto di Smirne che insisteva sull’unità di Dio e riteneva il Padre e il Figlio mere manifestazioni (modi) della Natura Divina. Per questa ragione, accusandolo di non contrastare l’eresia, censurò fortemente l’operato di papa Zefirino (198-217) dipingendolo come un uomo debole, indegno di guidare la Chiesa e strumento nelle mani del suo segretario, l’ambizioso ed intrigante diacono Callisto (Ippolito, Philosophumena, IX, 11-12). Quando, alla morte di papa Zefirino, fu eletto al suo posto proprio Callisto, Ippolito si decise per lo scisma e si fece eleggere antipapa (il primo nella storia della Chiesa) da una ristretta cerchia di seguaci. Lo scisma si protrasse anche dopo la morte di Callisto (222) sotto i pontificati di Urbano I (222-230) e Ponziano (230-235). Nel 235 l’imperatore Massimino il Trace avviò delle persecuzioni anticristiane dirette principalmente contro i capi della Chiesa e fece deportare Ippolito e Ponziano in Sardegna dove entrambi morirono di stenti e di privazioni. Secondo la tradizione cristiana prima di morire i due si riconciliarono ponendo fine allo scisma. Le spoglie di Ippolito vennero quindi traslate a Roma e sepolte nel campo Verano sulla via Tiburtina dove nel 1551 fu ritrovata  – fortemente danneggiata e quindi anche pesantemente restaurata dopo il ritrovamento ) una statua a lui attribuita oggi conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. 

S.Ippolito, III sec. c.caBiblioteca Apostolica Vaticana La statua fu ritrovata dall’antiquario e scultore napoletano Pirro Ligorio priva di braccia e testa che egli provvide a reintegrare. Anche la parte originaria, ad ogni modo, risulta dall’assemblaggio di due tronconi di statue diverse – appartenenti entrambi molto probabilmente a statue di figure femminili e riferibili al II secolo – operato nel III secolo, epoca in cui fu anche inciso sui fianchi del sedile l’elenco delle opere di S.Ippolito.


Il complesso della SS.Trinità di Venosa: l’Incompiuta

Il complesso della SS.Trinità di Venosa: l‘Incompiuta

La zona del coro con le cappelle radiali
Il potere e l’importanza del complesso venosino della SS.Trinità (cfr. parte prima) nell’ambito delle fondazioni benedettine dell’Italia meridionale crebbero di pari passo con il programma di rifondazione politico-ecclesiastica in senso latino che i Normanni intrapresero – in accordo col pontefice Niccolò II (1059-1061) – in quelle regioni ancora intrise di cultura e tradizione greco-bizantina.
Particolarmente determinante si rivelò tuttavia la scelta, operata da Roberto il Guiscardo attorno al 1069, di tumulare nella prima chiesa abbaziale – accanto ai resti del fratello e predecessore Umfredo – anche quelli degli altri fratelli : Guglielmo detto Braccio di Ferro, iniziatore della conquista normanna del Meridione e Drogone. Il ruolo di mausoleo dinastico così conferito alla Trinità venne ancor più rafforzato nel 1085 dalla sepoltura dello stesso Guiscardo voluta dalla consorte Sichelgaita e favorita dall’abate Berengario, giunto dal monastero normanno di Saint-Évroul-sur-Ouche (antica Uticum) attorno al 1063.
Sulla base dell’accresciuta importanza dell’abbazia si giustifica il progetto di costruire un altro edificio di culto, più monumentale e complesso del primo (destinato verosimilmente all’abbattimento, una volta completato quello nuovo) e che avrebbe dovuto inglobare tutta l’originaria zona del presbiterio nella parte terminale della navata verso la fronte, procedendo di una ο due campate oltre quelle già previste nel corpo longitudinale fino a raggiungere una lunghezza di oltre 140 m.


La nuova chiesa, caratterizzata da un grandioso impianto, con transetto ben distinto (unito alla navata da un inusitato – almeno per l’Italia – piliere dallo straordinario capitello a foglie di acanto), coro molto profondo a tre cappelle radiali ed ampio ambulacro semicircolare prevedibilmente coperto a volta – venne concepita secondo modelli architettonici senz’altro importati dai monaci fatti giungere dai luoghi d’origine della dinastia normanna al potere, dove erano stati già adottati con successo sin dai primi decenni dell’XI secolo nelle cattedrali di ConquesTours, e in varie chiese abbaziali. Tale schema architettonico, definito franco-normanno, fu adottato in Italia meridionale anche per altri due fra gli edifici sacri più significativi eretti dai nuovi conquistatori: la cattedrale di Aversa, fondata da Riccardo Drengot e conclusa prima del 1090 da suo figlio Giordano e quella di Acerenza, più tarda di qualche decennio.
Elemento caratteristico della chiesa venosina è l’utilizzo su vasta scala di materiali di reimpiego tratti dalle rovine della colonia romana di Venusia – fondata nel 291 a.C. Dal console L. Postumio Megello – e destinati al rivestimento (interno ed esterno) delle pareti.

Il portale che si apre nel braccio settentrionale del transetto sormontato da una lastra lapidea di recupero
I lavori di costruzione dell’Incompiuta (la nuova chiesa non verrà infatti mai terminata) iniziarono durante il regime abbaziale di Berengario (1066-1096) e prevedevano la costruzione del perimetro esterno, del transetto sporgente, e la sistemazione dell’area del coro con la posa in opera dei pilastri del deambulatorium. Il coro, del tipo a deambulatorio con cappelle radiali, appare molto simile a quello della cattedrale di Acerenza.

Il deambulatorio
La nuova chiesa avrebbe dovuto sostituire completamente la prima, che sarebbe stata demolita, e non integrarsi ad essa in un unico complesso.
Sotto il regime dell’abate Pietro II Divinacello (1140-1156) i lavori, precedentemente interrotti, ricevettero un nuovo impulso con la posa in opera delle cinque colonne e del piliere polistilo nella navata meridionale della chiesa; della fila di colonne, eretta su un lungo muro di fondazione, una non presenta il capitello, così come anche il piliere polistilo.

Il piliere polistilo
Il XII secolo, con il passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva, si chiude però con uno stato di decadenza per l’abbazia della SS. Trinità, con i suoi abati interessati più alle entrate economiche derivanti dai possedimenti del monastero, che all’aspetto spirituale, e ciò doveva riflettersi anche sullo stato materiale del cenobio, con la definitiva sospensione del cantiere dell’Incompiuta e la rovina degli altri corpi di fabbrica annessi al complesso monastico.
Durante il periodo in cui il complesso appartenne ai cavalieri di S.Giovanni (1297-1808) viene realizzato o portato a compimento il portale del lato meridionale. Sormontato da un arco semicircolare lunato, recante un bassorilievo della dextera dei entro il nimbo, ed un’iscrizione benaugurale; sulla chiave di volta dell’arco entro un tondo, l’immagine dell’Agnus Dei, simbolo dei Cavalieri di San Giovanni.

Il Portale meridionale
Nel XVI secolo venne costruito sul lato destro il grande campanile a vela. Sul lato rivolto verso l’interno dell’Incompiuta, poco al di sotto del livello delle campane, si individua un camminamento aggettante in pietra, sostenuto da una serie di archetti pensili su mensoline lapidee incassate nella muratura.

Il campanile

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Categorie:H05- Italia bizantina

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